MOAB, THE CREATOR

The Creator è una nuova serie di interviste di Ptwschool dedicata ai creativi di ogni età, provenienza e ambito professionale o artistico. Il primo ospite di questa rubrica è Stole Stojmenov, Moabvillain: designer, art director e creativo di base (per ora) a Milano.

Potevamo fare quest’intervista su FaceTime, come si fa in America. Dice Moab – Stole Stojmenov all’anagrafe di Kočani (Macedonia), @moabvillain su Instagram – che lì si fa tutto via FaceTime e le email ormai si usano solo per inviarsi i file e poco altro. Ma noi siamo della “vecchia scuola” e prima di inviargli le domande via email abbiamo preferito incontrarci di persona, davanti a un caffè in zona City Life. Lui è vulcanico. Una parlata velocissima e uno sguardo sempre attento e concentrato su ciò che sta dicendo in quel momento, cercando spunti e connessioni per ciò che dirà un attimo dopo. Qui non c’entra la giovane età, 22 anni, è più un discorso di attitudine e predisposizione mentale che ha da prima di aver cominciato a fare questo lavoro.

In questa intervista vogliamo dare per assodato il fatto che l’anno scorso si sia trovato primo in classifica in tutto il mondo con la copertina dell’album dei Migos e che il suo nome è quello di una bomba atomica di un videogioco. Queste informazioni basic le puoi trovare tranquillamente cercando “Moabvillain” su Google, facile. “Just don’t ask  all the obvious questions you can google, it’s obvious questions that you can easly google. C’mon, really? With all the questions you can ask a nigga, you ask that?” (cit.).

E allora andiamo oltre e conosciamo Moab per la persona che è oggi, un giovane creativo che con i suoi lavori sta contribuendo a definire, e migliorare, l’estetica contemporanea del rap in Italia.

Alcuni artwork di Moab, musica, progetti personali e altri inediti.

Ciao Stole, in questi mesi tutti ti hanno chiesto come sei riuscito a collaborare coi Migos e come ti sei trovato con Quavo ecc., ma sappiamo che per i Grammy Awards 2018, dopo l’uscita del disco, sei stato a New York insieme a loro per qualche settimana. Vuoi raccontarci cos’è successo in quei giorni e in generale del tuo viaggio a NYC? 

New York è stato il viaggio più costruttivo di sempre per me: sono tornato con una visione del mondo, del mio lavoro e di tutto ciò che mi circonda, completamente cambiata e ampliata. Ho passato qualche giorno a stretto contatto con quella che è stata la promo di Culture II, che era in uscita in quei giorni. Ricordo benissimo l’aria estremamente tesa, a differenza delle precedenti occasioni in cui ci eravamo incontrati, tant’è che Kuda (Igor Grbesic) – noto regista e fotografo di Lugano che mi ha accompagnato in questo viaggio – non è riuscito a scattare nemmeno una foto ufficiale di Quavo, Takeoff e Offset per il reportage. Ovviamente “tesa” nell’accezione esclusivamente positiva del termine; immagino non fosse comunque facile sopportare la pressione legata ad un disco in uscita, su cui tutto il mondo aveva gli occhi puntati, e al contempo quella di 3 nomination ai Grammys per il disco dell’anno precedente – il tutto nel giro in tre giorni. Sono state quindi giornate colme di impegni di ogni genere, in compagnia di persone e personalità che negli ultimi vent’anni io e Kuda avevamo visto al massimo su uno schermo. Al release party del disco, per dirti, abbiamo addirittura conosciuto Chris Bosh; allo stesso tempo però a statua della libertà non l’abbiamo vista manco da lontano. Avere l’opportunità di essere catapultati in una città come New York e di viverla come un local e non come un turista qualsiasi, di conoscere (aldilà dell’essere fan o meno) figure che hanno influenzato milioni di persone – che si tratti di musica, di arte, di sport, di fotografia o altro – è qualcosa che ti influenza, che ti segna abbastanza profondamente; soprattutto se sei un creativo e se sei appassionato di questo mondo.

Come si è allargato il tuo Network dopo quell’esperienza negli Stati Uniti e in generale, per te, quanto è importante avere un network di contatti alle spalle in questo lavoro?

Credo che avere un network solido e variegato di contatti sia estremamente importante, non solo a livello lavorativo nel senso più pratico del termine, ma anche e soprattutto su un piano creativo e personale. A NYC, come in Italia e in Europa del resto, nel corso degli anni sono entrato in contatto con diverse persone che in qualche modo hanno avuto un’influenza abbastanza importante sul mio lavoro, pur non avendo effettivamente lavorato con loro. Penso che, perlomeno nel mio caso, i contatti con le aziende, i brand, le agenzie e le etichette siano importanti tanto quanto i contatti che ho avuto l’opportunità di creare in tutto il mondo. Da una parte c’è il lato strettamente pratico e in qualche modo imprenditoriale dei rapporti, dall’altro quello più leggero e creativo, di “vibes” che si creano con persone con cui, inizialmente, non hai altro che una passione in comune. Per me è stato molto importante, andando negli States, vedere davvero e tastare con mano quanto lontano fosse effettlivamente arrivato il mio lavoro, ciò che avevo creato, e in un certo senso il mio “nome”. Mi ha fatto davvero realizzare per la prima volta la forza e il potenziale di tutto questo.

Ora che avrai anche più proposte di lavoro (anche in DM, immaginiamo) hai delle persone che ti seguono o rimani sempre indipendente, per quanto riguarda le tue illustrazioni? E come hai affrontato questo inevitabile aumento di richieste di collaborazioni?

Il DM nel 2018 è il posto più sbagliato dove creare opportunità di lavoro (ahah), fino al 2015 invece si poteva combinare qualcosa solo se chi ti contattava era Drake. A parte gli scherzi, diciamo che ho sempre mantenuto (e mantengo tutt’ora) il controllo assoluto del mio lavoro: non ho mai accettato una commissione controvoglia perché me lo imponeva qualcuno o perché i budget erano incredibili per progetti che non mi entusiasmavano. Per me una delle priorità indispensabili per poter lavorare insieme è quella di avere una visione simile o comunque fortemente compatibile, altrimenti diventa una forzatura e una perdita di tempo.

Per quanto riguarda la gestione del lavoro invece, da quando esiste 333 Mob, ho la fortuna di avere una struttura alle spalle che mi fornisce supporto sotto tutti gli aspetti, dal lato manageriale fino alla gestione di clienti importanti e dei rapporti con i brand; ciò mi permette di concentrarmi al meglio sul mio lavoro principale.
La crescita negli ultimi anni è stata invece molto graduale, quindi non c’è stato esattamente un giorno specifico in cui mi hanno di fatto intasato la mail. Potrei dire che è stata graduale anche perché il ruolo che avevo e che ho, come direttore artistico per i progetti dei Migos, mi ha fatto crescere gradualmente insieme a loro. Ero nel team da molto prima della loro consacrazione nel mainstream e questo non mi ha fatto, in qualche modo, percepire la crescita come un qualcosa di improvviso. Quando poi è iniziato il mio percorso prolungato con i ragazzi avevo già alle spalle progetti importanti con le major in Italia e con alcuni artisti negli USA. Non saprei, forse essendo già all’interno di quella dimensione è probabile che non l’abbia percepito come invece è stato fatto dall’esterno.

Come è nata la tua collaborazione con 333Mob e cosa ti sta dando umanamente e professionalmente questa esperienza?

333 nasce in via ufficiosa molti anni fa, da Low Kidd e alcuni suoi amici con cui produceva musica; tutto il mondo e l’immaginario che ruota intorno al 3 nasce principalmente proprio dalla mente di Kidd. Io e lui ci conosciamo davvero da parecchi anni, prim’ancora che mi trasferissi a Milano, e già ai tempi lavoravo ai suoi progetti solisti sotto il nome “333”. Nel 2017, dopo un periodo in cui ci eravamo allontanati perché eravamo entrambi alle prese con questioni personali, ricevetti una sua chiamata e scoprì che 333 Mob era “rinata” come una vera e propria etichetta. Mi disse inoltre che insieme a Slait e la new entry nel roster Lazza erano alla ricerca una figura che gestisse tutta la direzione artistica e il “lato immagine” del gruppo. Da quel giorno noi quattro siamo il nucleo della label e, per quanto 333 sia al 100% una creatura di Kidd, sia io che Slait, Jacopo e tutti gli altri la sentiamo altrettanto nostra. Oltre ad avere un lato professionale e creativo immenso ha anche una componente umana molto importante: abbiamo costruito un legame forte tra di noi negli ultimi due anni, che è davvero alla base di tutto e rende le soddisfazioni che ci siamo tolti, costruite partendo da zero, almeno dieci volte più soddisfacenti.

Oltre ai Migos ultimamente hai lavorato anche per Marracash , Salmo, Lazza, D.P.G. e sicuramente quella copertina con le colombe e i fiori bianchi, creata nel 2016 e uscita nel 2017, ha segnato uno svolta visiva nella tua estetica: tutto ciò che sarebbe venuto dopo sarebbe dovuto essere dello stesso livello o superiore, o sbaglio? C’è questa consapevolezza ogni volta che apri Illustrator e vai su “Nuovo file”?

Bella domanda. Sai che ci penso veramente spesso a questa cosa? Ogni tanto ripenso ad anni fa, quando ero ancora agli inizi del lavoro nella musica, e alcuni progetti li portavo a termine xon tempistiche veramente irrisorie. Ora in un certo senso non sono più nella posizione in cui “non ho nulla da perdere”: uno dei miei obiettivi è sicuramente diventato quello di collegare con una sorta di filo rosso ogni mio lavoro. Cerco di fare in modo che ci siano sempre degli elementi che facciano riconoscere che ci sono io dietro, ma soprattutto sfido me stesso a creare qualcosa di nuovo e non banale ogni volta. Non è facile, un po’ come in ogni lavoro creativo c’è sempre un’enorme componente di insicurezza e di “paranoia” che ti influenza; se poi passi dai flyer in agenzia a billboard di 20 metri in Times Square sei quasi obbligato ad essere perfezionista. Se fossi più sfacciato e sicuro di me non penso che sarei qui, in più perfezionista lo sono sempre stato quindi con gli anni la cosa non ha fatto altro che accentuarsi… Fino a raggiungere livelli patologici.

Già che ci siamo, vuoi dare due informazioni su come tecnicamente realizzi le copertine? Quali sono i passaggi, i software da avere e se hai qualche trucco del mestiere che vuoi dire a chi, vedendo i tuoi lavori, vuole fare il tuo lavoro?

Lavoro principalmente con tutta la suite Adobe, più alcuni software più specifici, ad esempio per il 3D e per i render. Solitamente non c’è una ricetta o una check-list fissa, cambia da progetto a progetto; principalmente tutto parte da un brainstorming generale e dalla necessità di comunicare nella maniera più efficace possibile un messaggio o un’idea. Onestamente non mi piace che mi venga chiesto di dare consigli a chi vorrebbe intraprendere questo mestiere, semplicemente perché non esistono trucchi o scorciatoie; la cosa più importante, e più divertente secondo me, del lavorare nella musica è proprio che non ci sono tante regole fisse da seguire. Non ci sono template di base, l’unica cosa che io reputo importante è creare qualcosa di originale ogni volta.

Più in generale come definiresti la tua estetica e come pensi sia cambiata la tua estetica negli anni? Quali sono i tuoi riferimenti (artisti, ricerca visiva, reference ecc.)?

La mia estetica negli ultimi anni è cambiata molto, perché ci vuole del tempo a darle un proprio carattere e a renderla in qualche modo personale e riconoscibile. Ho sempre cercato di raccontare il più possibile qualcosa tramite le immagini, senza però essere banale o senza rendere pesanti e “sovraccarichi” i miei lavori. Storia e storia dell’arte sono sempre state le mie materie preferite, quindi sono affascinato da sempre dai simboli, dai messaggi in un certo senso nascosti; resto stregato da quei dettagli che racchiudono un milione di significati e penso che questa componente abbia inciso moltissimo sulla maniera in cui lavoro ora.

Il mio pittore preferito è Caravaggio e ho sempre considerato lui e gli altri artisti suoi contemporanei come la mia prima influenza e reference visiva

a lui si susseguono poi un milione di altri artisti, designer, fotografi. Non penso però che queste figure siano molto importanti per le reference inizialmente; o meglio, principalmente penso che sia più importante dedicare del tempo alla creazione di un proprio gusto. Capire cosa piace e cosa no, ma soprattutto, secondo me, è fondamentalmente proprio capire perché qualcosa piace e qualcosa no. Nel design – a differenza dell’arte – è importante creare qualcosa di funzionale, oltre che di bello da vedere. Questo inizialmente va oltre teoria e pratica, è frutto di una sensibilità che si può allenare e sviluppare solo fino a un certo punto. Non è un superpotere, per carità, però io l’ho sempre ritenuta una componente tanto fondamentale quanto in gran parte innata.

Non una cosa a cui tutti pensano, soprattutto i non addetti ai lavori, ma fare “le grafiche” vuol dire necessariamente avere una visione più ampia dell’artwork 1080x 1080px che poi vediamo su Instagram: declinazione packaging, shooting creati ad hoc, assecondare le richieste e i feedback del committente, e così via. È un lavoro in tutti i sensi. In cosa sei migliorato nel tuo approccio a questo lavoro e cosa hai imparato ultimamente?

Sicuramente quello che sfugge al pubblico è il grande lavoro che c’è dietro ad ogni progetto e uno dei principali motivi è la crescente digitalizzazione della musica negli ultimi anni; lo streaming, YouTube ecc. e il fatto che prima di tutto le cose escono sui social e vengono viste su uno schermo di 6 pollici. La cosa fondamentale è mantenere sempre un filo conduttore all’interno di qualsiasi progetto, un qualcosa che unisca letteralmente tutti i singoli elementi che ne fanno parte ed è quindi un lavoro che inizia veramente molto molto prima della pubblicazione vera e propria.

Non è altro che la differenza tra fare il direttore artistico e il grafico fondamentalmente; le due cose sono complementari e spesso convivono, ma hanno un carico di responsabilità completamente diverso. Se il ruolo di un grafico o di un designer è prettamente esecutivo, la direzione artistica richiede una vera e propria visione a 360 gradi. Io personalmente ritengo che ad avermi formato nel mio lavoro nel termine più generale dell’essere un designer siano state due cose e cioè i progetti internazionali a cui ho avuto l’opportunità di lavorare e più specificatamente i progetti esterni alla musica che mi hanno aiutato nel costruirmi una visione a completa del mondo della comunicazione. Tra questi sicuramente le mie collaborazioni con Lettergram, uno studio di design di base a Milano che lavora praticamente in tutti i settori della comunicazione e con una varietà di clienti che mi ha permesso di formarmi in campi in cui non ero ferratissimo. Come in ogni ambito io credo che sia sbagliato soffermarsi solo su una singola sfumatura e di radicarsi su un solo aspetto senza esplorare ogni sfaccettatura.

Parliamo di musica. Qualche anno fa i giornalisti e gli ascoltatori si chiedevano la differenza tra “rap” e “hip hop” e la risposta poteva essere tipo “il rap è quello che fai, l’hip hop è quello che sei”, le quattro discipline, ecc. Oggi invece come spiegheresti la differenza, se c’è secondo te, tra “rap” e “trap”? 

Secondo me le dicotomie tra rap e hip hop e tra rap e trap in realtà non hanno niente a che vedere. Quando è uscito XDVR, che fondamentalmente ha completamente stravolto la scena musicale, sdoganando inoltre – con molta fatica – un immaginario completamente nuovo per l’Italia, c’è stato il bisogno di etichettare il tutto e di dargli una connotazione diversa da quello che era il rap italiano all’epoca. Fino al 2013 se dicevi la parola “RAP” in TV ti facevano il segno delle corna, con tanto di “YO YO”. La trap non è altro che una sfumatura stilistica del rap, quello che 10 anni fa si chiamava ‘south’, e non è altro che rap fatto su beat e su dei sound diversi; sempre rap rimane però, di conseguenza parole come “trapper” o “trappare” non dovrebbero nemmeno esistere, perlomeno non come il senso che viene attribuito loro in Italia. L’attenzione verso l’immagine e verso l’estetica, invece, ha sicuramente inciso moltissimo nella crescita del bacino d’utenza del rap; il che è perfettamente “normale” secondo me. La musica per raggiungere più persone possibili deve coinvolgere il pubblico a 360° – motivo per cui il livello dei video, dei Visual, dei packaging, ha pareggiato se non superato il livello che trovavamo nel pop, o almeno così è in Italia. Stiamo sicuramente vivendo una seconda Golden age, se cosi vogliamo chiamarla. Si è trovata la formula giusta per fare in modo che si creasse attenzione e curiosità per questo mondo da parte degli ambienti mainstream, sia musicalmente che visivamente.

Non potevamo finire questa intervista senza chiederti quali sono gli album di sempre fondamentali per te. Da quelli che ascoltavi da piccolo con tuo papà, a quelli usciti ieri. Tranquillo, non finirai mai su un’isola deserta, se ne rimane fuori qualcuno, amen.

Isola o non isola, preparati al papiro. Per semplificare voglio fare una lista di 10 dischi che PER ME sono stati fondamentali, che mi hanno in qualche modo acceso una lampadina, quindi è probabile che molti classici verranno omessi; ecco perché mi sembra abbastanza deleterio inserire Illmatic o The Wall, e non me ne vogliano Nas o i Pink Floyd. Primissimo fra tutti, con menzione d’onore, metto The Number of the beast (ecco appunto): non tanto per il disco incredibile che è ma perché è il primo disco rock/metal che ho sentito in vita mia ed è stato il mio passaggio, in ambito musicale, dal medioevo al rinascimento. Avevo 12/13 anni. Poi in ordine sparso, senza troppi dilungamenti: Madvillainy di MF DOOM e Madlib, da qui il gioco di parole MOABvillain sui miei social (che nessuno ha capito!), Classe ’73 di Bassi Maestro, MNIMN di Pusha T, cioè il più grande rapper (a mio avviso) che abbia mai camminato questa terra, Vero di Guè P, MDBTF di Kanye West, Cross dei Justice, The Golden Age di Woodkid, Innuendo dei Queen, Echoes Silence, Habits & contradictions di Schoolboy Q.

Sono stato abbastanza variegato, altrimenti probabilmente sarebbe servito un altro articolo solo per questa domanda; e ti dirò, sono sicuro di averne dimenticati alcuni che forse sarebbero stati più azzeccati.

È vero, servirebbe un altro articolo per tante altre cose che vorremmo ancora chiederti. Ma un’ultimissima domanda è doverosa. Abbiamo visto la tua ultima esperienza con Apple Milano, in piazza del Liberty. Cosa sei riuscito a trasmettere ai ragazzi che hanno seguito il tuo workshop e com’è stata la partecipazione?

Quello di sabato scorso è stato il mio primo workshop calcola, diciamo che il parlare in pubblico è sempre stato un po’ uno dei miei limiti e un workshop con 50 persone in un Apple Store gigante penso mi sia veramente servito per rompere il ghiaccio una volta per tutte.
Innanzitutto non mi aspettavo una risposta del genere, lo store pieno ha anche attirato un sacco di curiosi che non avevano idea di chi fossi. È stato davvero figo, pensavo di incartarmi dopo 5 minuti invece è andato tutto liscio.

Oltre a raccontare un paio di lavori miei, con qualche retroscena e spiegare un po’ il mio processo creativo era prevista anche un’attività pratica. Chiaramente i tempi non hanno permesso la realizzazione di capolavori incredibili però ciò che interessava a me era lo scambio di energie; Ho conosciuto uno ad uno i ragazzi che sono passati, abbiamo scambiato due chiacchiere, idee, mi hanno raccontato un po’ cosa fanno. Il vero scopo di tutto era quello, un po’ come quando vedi un film figo al cinema e uscendo ti viene voglia di comprare una videocamera e girare, spero di avere in qualche modo lasciato questa sensazione alle persone che sono passate.

www.moabvillain.com
instagram.com/moabvillain

Foto & intervista: RFM

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