Interview: Nicolaj Serjotti

Nicolaj Serjotti è tutto ciò che mancava nel rap italiano. Milano 7, il suo disco d’esordio, è uscito a novembre 2020 per La Tempesta Dischi. L’abbiamo incontrato in un’improbabile giornata di sole di fine gennaio da Crespi Bonsai (Parabiago), a pochi minuti da casa sua. Conosce il posto perché è da lì che arrivano, i suoi primi esemplari, e da allora scrive con la stessa concentrazione che si respira tra chi se ne prende cura.

Intervista di Robin Sara Stauder

Non sempre le cose vanno come vorremmo. Per questo, forse, quella dei bonsai è un’arte ingannevole. Un modo per possedere una versione in miniatura della nostra vita, e avere l’illusione di controllarla. Ma a ben vedere, nemmeno in piccolo le cose sono così semplici.

Crespi Bonsai è un luogo senza tempo, in cui quest’arte diventa magia. Nel silenzio, alberi secolari condividono il tetto con giovani ficus feriti – spesso regali che non ce l’hanno fatta, ma che possono ancora farcela. Il personale li salva, e forse non sa che non sta rimettendo al mondo solo una pianta.

Impossibile non chiedersi cosa ci faccia un rapper di provincia in mezzo a quel santuario muto. Se si tratta di Nicolaj Serjotti, probabilmente, tutto. Il suo è uno stile intimo e personale, che si allontana dall’autocelebrazione della trap per guardare ai maestri oltreoceano, capaci di disinnescare la realtà con le parole. Difficile restituirne l’autenticità senza rischiare di comprometterla, sfuggire alla tentazione di metterla in vetrina. (È sempre così, con gli artisti che ti piacciono: non sai se dire a tutti quanto sono forti, o tenerteli per te, come un segreto da rivelare solo più in là).

Classe 1998, Nicolaj arriva da quella quasi-Milano che, lontano dai riflettori, sta scrivendo un nuovo capitolo nella musica italiana. Cresciuto tra Busto Garolfo e Legnano, Milano 7 è il titolo del suo ultimo album, uscito a novembre 2020 per La Tempesta Dischi. Il nuovo sistema tariffario di Milano ingloba la provincia nella sua periferia, certificando l’esistenza di luoghi che forse non ne avevano davvero bisogno.

Il disco si potrebbe definire interamente a km 0, considerando le origini di coloro che ci hanno lavorato. La produzione è di Fight Pausa e Wuf, che combinano elettronica e jazz a sonorità tipiche del rap anni ’90. Il featuring con Generic Animal rimanda a una “sadness” quotidiana tipica del mondo indie, di cui Nicolaj esplora i confini. Persino l’immaginario visivo che vi sta intorno si colloca sullo stesso asse Milano-Varese. I ragazzi di Asfero Films (Andrea Scaringello, Filippo Elgorni, Riccardo Orsini) – sempre accompagnati dalla fotografia di Christian Kondic – trasformano il surrealismo quasi lunare del primo album (Oversized Thoughts, 2018) in un teatro urbano formato verticale, che fa i conti con le nuove necessità di un mondo da mettere in tasca.

Ancora prima delle immagini, è il tuo nome a portarci altrove, evocando un Est Europa di cui forse non sappiamo abbastanza. Come nasce Nicolaj Serjotti, come artista e come moniker? Cos’ha il tuo alter ego che tu non hai?

Nicolaj Serjotti nasce dalla necessità di raccontarmi senza filtri, senza creare un personaggio. Questo nome, quasi anagrafico, rappresenta al meglio le piccole differenze che esistono tra il modo in cui osservo il mondo ogni giorno e quello in cui cerco di parlarne quando scrivo. Che poi, più che vere e proprie differenze in realtà sono sfumature, sono il tentativo di reinterpretare con un’ottica nuova ciò che mi succede. Cerco sempre di valorizzare la mia normalità e di capire se nel mio quotidiano ci sia qualcosa in più rispetto a ciò che mi trasmette ad un primo impatto.

I testi hanno una forte impronta autobiografica. Da dove arriva quest’esigenza di raccontarsi? Come si è trasformata in quello che fai ora?

Penso che l’esigenza che ho di raccontarmi sia in realtà l’esigenza che ho di parlare con me stesso e di fare ordine nella mia testa. Non ho un modo lineare di pensare, non mi appaiono mai delle frasi definite in mente, e tradurre in parola i miei pensieri mi aiuta sicuramente a prenderne coscienza e a capire in che situazione mi trovo in un determinato momento. Poi ovviamente non c’è solo quest’aspetto, scrivo anche perché mi diverte e mi piace creare le immagini che creo a prescindere da tutto, però sicuramente questo dialogo personale resta un aspetto importante della mia musica.

Come si lavora a sei mani su un pezzo? In che direzione va la vostra sperimentazione musicale?

Con Fight Pausa e Wuf abbiamo lavorato molto a tre teste in realtà, poi è stato un continuo rimodellamento delle idee che di volta in volta sono nate, con passaggi di mano tra le loro sessioni di Ableton e la mia scrittura. Trovare una formula che rispecchiasse il gusto musicale di tutti e tre non è stato immediato, ma a posteriori penso che il disco sia una sintesi perfetta dei due anni in cui ci abbiamo lavorato. A mio parere l’elemento di sperimentazione di Milano 7 è racchiuso nel tentativo di unire queste nostre diverse sfumature all’interno dello stesso contesto, cercando di mantenerle in equilibrio.

«Esco a guardare le stelle in balcone e disegno una costellazione
Poi penso che le dovrei dare un nome
Altrimenti come faccio a parlarne con le altre persone?»

(Scarabocchi)

Sei riuscito a dare un nome alle cose che non ce l’avevano? Scrivere ti ha aiutato più a capire o a sentirti capito?

Qui parlo di un periodo in cui ero molto più disorientato di quanto non lo sia ora, quindi ripensandoci penso di esserci riuscito, anche se resta sempre un elemento di dubbio sullo sfondo.

Nei miei testi parlo di situazioni personali ma non uniche, e sicuramente chi mi ascolta può rispecchiarsi in alcune sensazioni, però ci sono anche cose che come tutti non posso raccontare semplicemente perché non so come farlo. Quindi è difficile che scrivere sia abbastanza per farmi capire, e forse anche per capirmi. «Don’t say you feel my pain, cause I don’t even feel myself».

Hai uno stile molto introspettivo, che sembra fatto apposta per una fruizione individuale. Nulla di più adatto alla situazione in cui ci troviamo. Ma se potessi scegliere: concerti o cameretta?

Dovendo scegliere, cameretta. O studio, anche se devo ammettere che gli anni della cameretta mi mancano, forse perché ricollego molto l’innocenza con cui scrivevo al luogo in cui l’ho vissuta. Comunque a parte questo, personalmente preferisco la musica “su disco”, perché sono molto affascinato dai dettagli e dai particolari che per forza di cose un po’ si perdono dal vivo. Però ovviamente penso anche che i concerti siano una dimensione fondamentale per chi fa musica, e non vedo l’ora che si spezzi questo silenzio.

«So che c’è la mia ombra nella stanza
Non la vedo ma so che mi guarda
Sì sento il suo respiro sopra il collo mi stringe e mi parla
Dice che solo accettando il buio riuscirò ad evitarla
Ma quando spengo la luce lei invece si allarga
E con il muro fa pendant, maledetta bastarda»

(Ottobre)

Che forma ha la tua ombra? Assomiglia più a quello che ti vuoi lasciare alle spalle o a quello che vuoi diventare?

Direi che assomiglia più a quello che ho paura di non diventare. Ho paura di non riuscire a scrivere un altro disco in tempo (in tempo per cosa?), ho paura di perdere l’ispirazione, ho paura di perdere interesse, mio e degli altri. Per fortuna alla fine riesco sempre a guardare la realtà con un occhio più razionale e a far rimpicciolire quest’ombra.

«Questo mio vuoto non si riempie
Ma tanto ormai ci ho fatto l’abitudine
Appena posso prendo un volo
Cambio latitudine»

(Latitudine)

Che cos’è quel vuoto? Latitudine geografica o psicologica (ovvero: scappare o cambiare prospettiva)?

Entrambe, ma anche nessuna delle due. Ho voglia di scappare e di cambiare prospettiva, ma se dovessi davvero scegliere probabilmente non lo farei. Sto bene qui e sono in un periodo in cui sto riuscendo a definire meglio in che direzione mi interessa andare. L’ignoto ha sempre un certo fascino, però per quanto a volte vorrei riuscire a guardare la realtà con altri parametri, penso che per raggiungere la prospettiva a cui ambisco sia meglio partire da quella che ho ora. Quindi quel vuoto cerco di colmarlo, ma senza fretta.

A proposito di latitudine, dacci un po’ di coordinate. Musicali, letterarie, cinematografiche – quello che vuoi.

Un po’ vorrei dilungarmi, ma alla fine ho imparato che troppi consigli si trasformano in nessun consiglio, quindi vi direi semplicemente che in questo momento sono geolocalizzato qui: Vince Staples – Big Fish Theory, Jonathan Franzen – La Ventisettesima Città, Kohei Igarashi, Damien Manivel – The Night I Swam.

Ora sappiamo di cosa si alimenta il tuo immaginario. Ma come avviene invece la sua visualizzazione? Che rapporto c’è tra musica e immagine?

Per me gli elementi visivi che accompagnano un progetto musicale sono fondamentali. Negli anni mi sono accorto che non riesco mai ad affezionarmi ad un disco se non mi piace anche la copertina. La direzione visiva di Milano 7 è di Filippo Elgorni, Riccardo Orsini e Christian Kondic, abbiamo lavorato insieme dall’inizio del progetto per creare un immaginario che fosse coerente con la musica e curato nel dettaglio. Per quanto riguarda l’aspetto grafico di Milano 7 invece ci siamo affidati ad Alice Zani, che ha da subito capito perfettamente in che direzione ci stavamo muovendo e ha creato delle grafiche che hanno aggiunto una nuova dimensione al progetto. Il risultato è un universo visivo che mi sento cucito addosso, e che traduce al meglio la mia musica.

Quando ci siamo visti per scattare speravamo in qualche improbabile raggio di sole. Tu e Christian, invece, erano giorni che aspettavate la nebbia. Cos’avete in mente?

Alla fine è arrivata il pomeriggio stesso e abbiamo fatto una corsa. È da un po’ che stiamo sviluppando idee per un mio nuovo progetto, ma per ora è tutto work in progress. Quindi direi che nella nebbia volevamo solo passeggiarci, forse.

Che progetti hai per il futuro? Cosa cambierà nel prossimo album?

Ho in progetto sicuramente di evolvermi, di mettermi alla prova. Però ad essere sincero ho anche in progetto di non uscire dalla mia comfort zone, con il tempo ho capito che il mio obiettivo è quello di trovare sempre il modo di espanderla gradualmente. Per questo sia dal punto di vista musicale sia dal punto di vista visivo ci saranno degli elementi nuovi, ma ciò che abbiamo fatto fino ad ora resterà come pietra d’angolo. Mi affascina l’idea di aggiungere poche dimensioni alla volta, così da creare un qualcosa di coerente e al tempo stesso in continuo cambiamento.

Ma insomma, alla fine, perché proprio i bonsai?

Ogni volta che entro nel museo di Crespi è come se si fermasse il tempo, passeggiare in mezzo a questi bonsai centenari mi dà la sensazione di essere di passaggio e mi tranquillizza. Forse trovarmi davanti a un bonsai di più di mille anni mi aiuta a rimettere tutto in prospettiva, almeno per un po’. In futuro mi piacerebbe molto approfondire quest’arte, per ora sto cercando di calibrarmi da solo. Giusto un paio di mesi fa la mia ragazza mi ha regalato un Ficus Retusa, che dovrebbe essere tra i più semplici da curare, e ho rischiato subito di ucciderlo perché ho esagerato con l’acqua. Per fortuna adesso è salvo, io sto cercando di imparare ad ascoltarlo.

Special thanks to Crespi Bonsai

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